mercoledì 10 febbraio 2010

Ricordi di caccia

Nella raccolta “Soltanto per ricordare"
dal libro: A caccia di turdidi di passo  (2011)
di Domenico Feriani.

Nella mia famiglia si parlava anche di caccia.
Abitavamo a Camisano vicentino dove mio padre esercitava la professione di medico condotto.
La casa in cui sono nato non c’è più: modesta ma grande, e con un giardino molto bello, era in via XX Settembre, davanti alla trattoria “Alla Concordia” ed al forno di Ferruccio Ferracina, tra il ponte della “Puina” ed il monumento ai Caduti.

Mio fratello maggiore Luigi (Nino) dedicava il suo tempo libero agli Esploratori ed ai Lupetti del Riparto Camisano I; Riccardo (1930 - 2009) aveva propensione per la politica, se la cavava egregiamente nel complicato gioco delle carte chiamato “foracio”, ma la sua vera passione era la caccia.

Il papà faceva soprattutto e soltanto il medico.
I suoi svaghi erano: qualche caffè alla “Meridiana”, la partecipazione ad alcune cene “de osei”, quando lo invitavano, ed una settimana all’anno in Cadore, dove aveva fatto la guerra come ufficiale degli Alpini e dove aveva anche, a guerra finita, iniziato la sua professione di medico, nel paese di Castellavazzo.

Quando il “passo” era buono, capitava che ci regalassero degli uccelli: le mie sorelle allora li spiumavano e la mamma li cucinava, alla vicentina con lardo e salvia, sulla cucina economica.

Il papà era decisamente un buongustaio, una buona forchetta, come si diceva, e sosteneva che il segreto per mangiare “poenta e osei” con poco danno per la salute era quello di innaffiarli con poco vino e tanta acqua.

Per il papà erano una tradizione:
La partecipazione alla annuale Adunata nazionale degli Alpini;
La cena in canonica, dove l’Abate Parroco Mons. Giuseppe Girardi, gran cacciatore e pescatore, invitava autorità ed amici;
La cena in casa di Alessio Vicentini (Mino), in data Madonna del Rosario, quando la Signora Gina preparava delle cene “de osei” degne di essere ricordate,
e un’altra cena, in novembre, non ricordo presso quale famiglia, forse Zambotto, per mangiare le cesene (gasanee).

Io, sesto figlio e terzo bocia (bocia, secondo il frasario degli Alpini), armeggiavo con archi e fionde ed andavo a pescare: inizialmente le alborelle, che chiamavamo “pesate” e poi i cavedani, che chiamavamo “squali”.
Solo di recente ho scoperto perché chiamavamo “squali” i cavedani; nella sistematica di Linnaeus (1758) il cavedano è classificato: Squalius cephalus!

All’inizio, mio fratello Riccardo andava a caccia, ospite di amici, in appostamento fisso (a capanno, che chiamavamo “casoto”), o in appostamento temporaneo, soprattutto per la caccia alle allodole, ma anche in capanni particolarmente attrezzati per l’uccellagione, ossia la cattura degli uccelli di passo con l’uso di reti a ribaltamento governate a mano; quest’ultima forma di caccia la chiamavano “oseanda”.
Qualche volta mi portava a capanno e, ogni tanto, mi facevano fare un tiro, “a rama”, con lo “sciopeto”: era il calibro 36.

Poi Riccardo ebbe un capanno tutto suo: ricordo che i richiami vivi li teneva sulla scala che, dal primo piano di casa, portava in soffitta.
Ricordo anche che mi recavo nella stalla di Francesco Zaccaria (Checo Z.) per raccogliere le tarme per gli uccelli da richiamo.
I richiami venivano trasportati, da casa al capanno, con la “gabionara”, un bel sistema a telaio di legno per tenere le gabbiette compatte e solide in modo da poterle trasportare appese al manubrio della bicicletta.

Io sono andato a caccia di nascosto, senza mai farmi scoprire, o almeno così credevo.
Con Francesco Zaccaria, quando il fratello Fausto era nei campi e la mamma (la Signora Jolanda) era fuori, forse anche a casa mia, a conversare con mia mamma, prendevamo un fucile di Fausto, di piccolo calibro, ed andavamo nel granaio della sua casa dove c’era di tutto, soprattutto frumento e grano turco.
Chiudevamo tutte le finestre, tranne due verso il vigneto e ci appostavamo ben nascosti dietro il mucchio delle patate.
Aspettavamo che entrassero i passeri e si trovassero in posizione tale da poterne prendere cinque o sei con un solo colpo.
Qualche volta faceva sparare anche a me, malvolentieri, perché aveva paura che non ne prendessi abbastanza.
Dopo la schioppettata sembrava che grandinasse frumento ma poi, con la scopa di saggina, mettevamo tutto in ordine.

Con Aldo Pavin, invece, uscivamo nei campi.
Verso sera perlustravamo le siepi, uno da una parte, l’altro dall’altra: alternativamente, uno armato di fionda, l’altro di un mauser che Aldo aveva opportunamente adattato per sparare a pallini e che io avevo barattato dando in cambio a Francesco Forestan (Checo F.), figlio di Piero detto “el Barba”, già Sindaco del Paese, un fucile mitragliatore trovato in soffitta nascosto sotto un mucchio di scatole vuote di medicinali.

In paese molti andavano a caccia; ho già ricordato L’Abate e Mino, ma mi vengono in mente altri.
Piero Speggiorin, detto “Piero Campanaro”, il più gran cacciatore-uccellatore mai conosciuto;
i Fratelli Busatta, in particolare Bortolo, (che abitavano lungo la strada che porta al Mancamento);
il pittoresco Signor Ghiotto, che partiva da casa a piedi trainando un carretto pieno di gabbie per recarsi al capanno nei campi di Casonato;
Mario Sacchiero, figlio dell’altro medico condotto con propensione a fare il dentista;
i fratelli Paliotto, Vittorino e Mario, detti “Perana”;
Carlo Tresso, che abitava in Cà Alta, uno dei pochi che prendevano beccacce, perché andava a caccia anche sull’altopiano di Asiago; ricordo il canto delle quaglie proveniente dai campi proprio dietro casa dove Carlo “impiantava la “quaiara”;
un certo Langeli, che procurava ai cacciatori i richiami vivi,
e tanti altri di cui non ricordo i nomi.

In campagna, praticamente ogni agricoltore e contadino aveva una “sciopa”: sciopa è l’espressione dialettale, al femminile, di schioppo, e stava ad indicare la classica doppietta calibro 12.

La caccia mi piaceva, ma non potevo praticarla autonomamente.
Ricordo con emozione le giornate passate nel capanno di Silvio Casarotto (Silvieto).
Per qualche anno, prima che se ne andasse negli Stati Uniti per un grande amore, diceva lui ma, secondo me, soprattutto per non fare il servizio militare, ho frequentato il suo capanno, costruito nei campi di famiglia, poco distante dalla sua bella casa colonica.
A metà mattina arrivava al capanno, in bicicletta, la sorellina di Silvio, Maria Grazia, che ci portava la merenda in un cestino di vimini coperto da una tovaglietta rossa.
Con il panino di salame c’era sempre la bottiglia con la spremuta d’uva ed i bicchieri di vetro.
Quando Maria Grazia veniva in paese, l’unico “abilitato”, dal gelosissimo Silvio, ad accompagnarla a casa era Sandro Miotti, perché di lui si fidava.
Silvio era un po’ snob, ma gentile e molto educato ed ogni tanto parlava in italiano. In paese era l’unico che, per indicare i prati sommersi ad arte per la caccia alle anitre, li chiamava specchi artificiali, mentre tutti gli altri dicevano “sguaso”.
Da Silvio ho imparato ad azionare gli zimbelli (sambei), ad usare i fischietti (ciocoi) di richiamo, a riconoscere le specie e a distinguerle dal verso e dal canto ed i nomi, anche dialettali , di quelli di passo.

Con la morte del papà, il trasferimento della famiglia a Padova, il faticoso percorso alla scuola di Ingegneria dell’Università di Padova prima e l’impegnativo lavoro poi, finì tutto: addio caccia e pesca.
Qualche uscita a pesca ogni tanto ma a caccia non ci sono più andato.

L’unico legame con la caccia è stato attraverso mio fratello Riccardo, che la ha praticata fino a quando la buona salute non è venuta meno.
Con l’amico Claudio Speggiorin, degno figlio di Piero, mio fratello ha fatto dei bei carnieri, specialmente in Friuli.

Ogni anno ero ospite di Riccardo, con parenti ed amici, per una cena di uccelli.
Secondo tradizione vicentina, la cena iniziava con un primo detto “pollo intingolo”, poi la “tecia de osei con la poenta frita”, verdure fresche e vinello speciale (imbottigliato da Claudio) a volontà: il tutto magistralmente preparato dalla moglie Rita.

Poi la tradizione si interruppe.
Mia moglie Luisa, allora, per non farmi mancare la cena di uccelli, li acquistava, prenotandoli per tempo, da un macellaio di “Sotto il Salone” e me li preparava per festeggiare il mio compleanno in dicembre.
Da qualche anno non li compera più perché riesco a prenderli: infatti, dal 2006, conseguita la licenza, vado a caccia, sia alla migratoria, sia alla selvaggina stanziale. Non sono esperto come a pesca, ma ho buoni maestri e sto imparando velocemente, anche perché non ho molto tempo…

Da qualche anno ho un altro appuntamento annuale per un pranzo di caccia: a casa di Adriana e Giancarlo.
Adriana è una “coscritta” e compagna di classe di mia moglie; per tanti anni si sono tenute in contatto con le classiche telefonate di auguri: Natale , Pasqua e compleanni. Si sono incontrate a Camisano annualmente per la cena della Classe (1941).

Qualche anno fa, Adriana che è figlia di Mino e della Signora Gina (ultranovantenne) ha voluto invitarci ad un pranzo di caccia.
E’ cominciata così una bellissima nuova tradizione: tutti gli anni, in inverno, noi siamo da loro a Scaldaferro; poi, in estate, loro sono nostri ospiti per un pranzo di pesce a base di trote selvatiche e temoli pescati da me, con mosche rigorosamente da me costruite.
Giancarlo è cacciatore e si dedica soprattutto alla selvaggina stanziale
Sono da ricordare i suoi surgelatori, ricchi di fagiani, starne, lepri, allodole, trote, morette….solo per restare in tema di caccia e pesca.
Adriana è una vera padrona di casa, una gran cuoca, come si addice alla figlia della Signora Gina.
Memorabili i suoi pranzi: vellutata di zucca con crostini, minestrina con i fegatini, allodole con polenta fritta, verdure fresche e cotte, frutta caramellata, formaggi e dolci di qualità, per non parlare dei vini.
Con Giancarlo ho legato subito; ci accumunano l’amicizia tra le mogli, la passione per la caccia e, purtroppo, i problemi cardiaci: ma entrambi siamo fiduciosi o incoscienti…

….

A Camisano vicentino, paese in cui sono nato, pratico la caccia soprattutto alla selvaggina migratoria.

A Camisano vive Aldo Pavin, l’amico d’infanzia (ha un anno più di me) con il quale ho fatto le prime esperienze di pesca e caccia, di cui ho già scritto in altri “Ricordi”.

Aldo è unico e proprio per questo non sarà facile raccontarlo.

Mamma Elena e papà Ermenegildo (Gildo): lei mite, lui un po’ burbero, ma un burbero benefico.
La sua cagna, un bellissimo esemplare di Pointer, non a caso si chiamava “Mis”.

Quando Gildo veniva a casa mia, per sostituire la bombola di metano, spesso si fermava in cucina con la mamma e chiacchieravano a lungo; tanto burbero poi non doveva essere.
Arrivava con il suo motocarro nel nostro giardino e poi portava la bombola a destinazione con l’ausilio di un carrello.
Ricordo che una volta la mamma gli ha passato il ferro da stiro per riscaldargli la schiena perché soffriva di dolori; infatti a volte camminava con difficoltà.

Il fratello maggiore di Aldo, “Bepi”, che lavorava come odontotecnico (allora noi dicevamo “meccanico dentista”) presso l’ambulatorio del Dott. Sacchiero, è morto in età giovane; se si fosse ammalato qualche tempo dopo sarebbe stato possibile salvarlo perché ci sarebbe stato il farmaco specifico e la conoscenza delle giuste dosi per somministrarlo.

Il fratello Carlo ci ha lasciati qualche anno fa; anche Carlo lavorava nel settore auto:
persona buona e fragile.

Il fratello Antonio, intraprendente e creativo, aveva iniziato la sua carriera lavorativa come apprendista presso una officina di elettrauto.
In poco tempo ebbe una officina tutta sua, dove anche Aldo iniziò il suo percorso lavorativo.
Ho partecipato al funerale di Toni qualche mese fa: si è spento in officina lavorando.

La sorella Maria, apprezzata e stimata, trovò un buon impiego in una importante azienda di Silea (TV), dove lavorava anche mio cognato Giovanni, che ci ha lasciati, marito di mia sorella Maria Antonia (Tona).

La sorella più piccola, Lucia, è diventata una brava insegnante elementare.

In poco tempo, dopo un periodo di apprendistato, anche Aldo realizzò una officina tutta sua, al piano terra di un complesso immobiliare di proprietà, con altri negozi e due appartamenti.

Il mercato c’era ed Aldo seppe intuirne e prevederne gli sviluppi possibili.
La sua abilità manuale, il saper fare, l’intelligenza, la professionalità e, soprattutto, l’onestà gli consentirono di acquisire una clientela di riguardo.
E’ stato, ed è, un artigiano di quelli che riparano, sostituendo i pezzi solo quando è necessario.
Quando mi rivolgevo a lui per le automobili di casa, al momento di pagare mi diceva: “tot di materiale e tot di lavoro”; non ha mai usato l’espressione manodopera.

Da qualche anno è in pensione, ma non ci riesce del tutto perché tanti vogliono ancora lui.

Da quando sono in pensione anch’io, lo frequento di più perché con lui, bontà sua, vado a caccia.

Mi sono fatto un’idea; penso che per tutti gli interventi ed i lavoretti che fa, per gli amici e conoscenti, non guadagni gran che, forse ci rimette, quantomeno il tempo che sottrae alla caccia, alla pesca, all’orto e a quella che lui, con arguta ironia, chiama la sua “Azienda”.

Se Aldo avesse potuto studiare, a quei nostri tempi era un privilegio per pochi, sarebbe diventato un bravo tecnico.

L’Azienda è costituita da un grande container, un’ampia tettoia-ricovero, un’automobile fuori uso, un signor orto, un recinto molto spazioso per la cagnetta da caccia “Lella” (Epagneul breton) coperto da un pergolato di varie uve e contenente due casette-cuccia (estiva ed invernale), un pollaio (galline di varie razze, galli ed anatre), un recinto con fienile per le capre nane ed una striscia di terreno confinante ad ovest con l’argine del fiume Ceresone e ad est con la roggia Schiesara; una striscia di terra larga circa dieci metri e lunga quasi cinquecento.

La striscia di terra è orientata Nord – Sud ed è compresa tra il ponte sulla strada comunale (vicino al mulino a ruota d’acqua in Contrà Levà) ed il metanodotto che sovra-passa il Ceresone.

Quella striscia era un incolto; ora è un giardino con fiori, frutta ed ogni genere di ortaggi.
Aldo ha bonificato le siepi di alberi (salici, robinie, sambuco, gelso, bamboo, ciliegio..) ed arbusti in modo da renderle attrattive per gli uccelli ed ha provveduto a piantare, alla base dell’argine del Ceresone, ogni specie di pianta per attirare merli, tordi , cesene, fringuelli, peppole…

Si trovano: crategus (bacche rosse e gialle), giuggiole, nespole, mandorle, nocciole, cachi, melograno, i piccoli cachi delle dimensioni di una ciliegia, sorbo del cacciatore, fichi, mele e tanti altri arbusti o alberelli che producono piccole bacche a grappolo.

Ha sistemato la stradina sotto l’argine applicando un sottofondo in modo che sia percorribile in automobile anche nei periodi di grande pioggia.
Il cancello d’ingresso è un capolavoro di ingegneria: tutto meccanico, tutto manuale.
Arrivando, basta un tocco con il muso della macchina, ed il cancello si apre.
Se il tocco è medio, il cancello si aggancia e resta aperto; se il tocco è morbido, il cancello si apre consentendo un veloce passaggio, non si aggancia e si richiude da sé.
All’uscita, un colpetto ad una leva raggiungibile dal finestrino aperto della macchina, fa chiudere il cancello lasciando il tempo per varcarlo.

Poi vi sono i ponti: tre ponti levatoi permettono di attraversare la roggia e di raggiungere comodamente e velocemente la grande distesa di campi ad est della Schiesara.

Fino a circa metà ottobre, il grano turco (in passato la soia) costituisce rifugio e zona di pastura per merli, tordi e qualche fagiano; poi, dopo il taglio del grano, la distesa aperta, allineata con una rotta migratoria, consente la caccia alle allodole di passo e di altre specie consentite in deroga.

L’acqua del Ceresone e della Schiesara sono attrazione e rifugio per anatre e gallinelle d’acqua.

All’altezza del pollaio e verso il recinto delle capre, Aldo ha realizzato due efficacissimi capanni per insidiare i tordi , merli e cesene.

Aldo ha una grande manualità; si costruisce tutto da solo trovando, per ogni problema, soluzioni semplici ed originali.
Detesta lo spreco e per questo recupera ed accantona tutto quello che può servire e lo reimpiega all’occorrenza.

Aldo è buono e generoso, direi altruista.
E’ benvoluto da tutti, evita sempre lo scontro e, se qualche cosa non funziona, si salva sempre con il suo umorismo, l’ironia e la battuta che sdrammatizza.

Fa fatica ad infliggere anche qualche piccola punizione al cane, perfino quando gli ammazza un pollo: in questi casi redarguisce la Lella chiamandola “selvaggia”; se si allontana troppo o tarda a rientrare la apostrofa chiamandola “zingara”.
Quando la libera le dice: “vai…vai…corri come il vento”.

Ultimamente Aldo si concede una vacanza di una settimana per andare a caccia nel sud Italia con un amico.

Durante la sua assenza svolgo qualche piccolo compito in “Azienda”, come, per esempio, dar da mangiare agli animali: per quel periodo ho la nomina di “Direttore”!

E’ difficile che io torni a casa, quando vado da Aldo, senza un regalo: una forbice, una cartucciera, una canna da pesca, un paio di guanti…., frutta, verdura ed anche funghi.
Si, perché in Azienda si possono trovare dei bei chiodini ed un fungo particolare, controllato dal micologo Lino Vicentini, che Aldo mi ha fatto conoscere e che è molto buono, specialmente con le tagliatelle: si chiama Agarico chiomato.

Aldo mi ha accolto come un fratello ed io non troverò mai il modo di ringraziarlo in maniera adeguata per l’opportunità che mi sta offrendo di frequentare “l’Azienda”, senza limiti e condizioni.
Non so se leggerà questo mio “Ricordo”, ma, in ogni caso, voglio qui ringraziarlo di cuore, sicuro che lui stesso non si rende conto del bene che mi sta facendo”.


domenica 10 gennaio 2010

Pesca della trota selvatica a mosca.

PREMESSA.

In un precedente articolo (Il Pescatore Trentino, anno 32, n.3/2009) ho parlato della pesca delle trote selvatiche con esche naturali mediante le tecniche “al tocco” e “ a saltello”, trote da ricercare nei rii o rivi e nei torrentelli di alta montagna, ma anche in alcune, sia pur rare, risorgive del piano.

Le trotelle che popolano questi corsi d’acqua possono essere insidiate efficacemente, sia pure con qualche difficoltà aggiuntiva, anche con esche artificiali.

Una tecnica particolarmente affascinante e gratificante è quella denominata “a mosca”; “fly fishing”, per dirla con gli anglosassoni, “pêche a la mouche”, per i transalpini.

La pesca a mosca si effettua con canne particolari (“canne da mosca”, appunto) ed utilizzando una lenza speciale chiamata “coda di topo”, terminante con un “finale” in monofilo a sezione conica ovvero, in alternativa, con un finale realizzato con spezzoni annodati di monofilo aventi diametro decrescente.

Si impiegano, come esca, imitazioni di insetti acquatici nelle morfologie dei diversi stadi della loro metamorfosi, ma anche imitazioni di insetti terrestri o di piccoli crostacei.

I PESCI.

La pesca a mosca nasce dall’osservazione e dallo studio del sistema di alimentazione di molti pesci. Sono di grande interesse (anche se non esclusivo) per il pescatore a mosca, i pesci appartenenti all’Ordine dei “Salmoniformi” e, tra questi, in particolare quelli appartenenti alle Famiglie dei “Salmonidi”, dei “Timallidi” e dei “Coregoni”.
La trota fario appartiene al Genere “Salmo” ed è della Specie “Salmo trutta trutta”.
Ho letto, non ricordo dove, che il nome fario, di uso comune, deriva dal tedesco “Forelle”
Della Famiglia dei Salmonidi fa parte anche il Genere “Salvelinus”.
Cito la Specie “Salvelinus alpinus” perché, evento sia pur raro, ne ho catturato qualcuno, naturalmente liberandolo con gran cura.

All’interno del progetto “Carta ittica della Provincia di Belluno” (Zanetti, Loro, Turin e Russino, 1992), uno studio accurato sull’alimentazione dei pesci ha dimostrato come la trota fario, di medio-piccola taglia, si nutra prevalentemente di insetti acquatici (circa l’ottanta per cento della dieta) ed in minor misura di piccoli crostacei, di anellidi e di insetti terrestri che possono cadere in acqua.
E’ del tutto evidente come la conoscenza degli insetti che vivono nelle acque popolate dalla nostra reginetta costituisca patrimonio fondamentale per esercitare la pesca in modo corretto e proficuo.

GLI INSETTI.

La Classe degli insetti acquatici appartiene al Tipo degli “Artropodi” e si divide in due Sottoclassi:
“Atterigoti”, sprovvisti di ali e “Pterigoti”, alati.
In ragione del tipo di metamorfosi, gli Pterigoti si suddividono a loro volta in “Olometaboli”, cioè a metamorfosi completa, ed in “Eterometaboli”, ossia a metamorfosi incompleta, di vario tipo.
Classi e Sottoclassi sono formate dall’insieme di svariati Ordini e Famiglie, alle quali appartengono migliaia di Specie.
Lo studio sistematico degli alvei, l’osservazione degli insetti durante la loro vita aerea e l’esame del contenuto dello stomaco delle fario da me catturate, in tanti anni di pesca e nei diversi periodi della stagione ittica, mi consentono di poter indicare, con relativa buona approssimazione, che la trota fario dei rii, torrentelli e risorgive si nutre prevalentemente di insetti appartenenti agli Ordini:

 dei “Tricotteri”, per quanto riguarda gli insetti a metamorfosi completa;

 degli “Efemerotteri” e dei “Plecotteri”, quali Ordini ai quali appartengono insetti a metamorfosi incompleta.

Tricotteri: la metamorfosi avviene in tre fasi: dall’uovo si sviluppa una “larva” che si trasforma in “pupa”; l’ultima mutazione trasforma la pupa emergente in insetto alato.

Efemerotteri: dall’uovo si sviluppa una larva; con la comparsa delle sacche alari la larva (o “ninfa”) sale in superficie e schiude come insetto non ancora perfetto (“subimago”); successivamente assume la forma definitiva (“imago”) ed inizia il suo volo nella fase aerea.

Plecotteri: dall’uovo si sviluppa una larva o ninfa che, nel tempo, assume diverse trasformazioni. Le larve, risalendo dal fondo sui sassi o tra la vegetazione, schiudono e si trasformano direttamente in insetto adulto.


Rispetto a questi tre importanti Ordini, mi limito qui ad indicare, nel riquadro che segue, le più significative Specie che, con maggior frequenza, vivono e schiudono negli ambienti acquatici popolati da fario selvatiche.

ARTROPODI → INSETTI → PTERIGOTI

ORDINE → FAMIGLIA → SPECIE

TRICOTTERI
Olometaboli IDROPSICHIDI 1 HYDROPSYCHE CONTUBERNALIS
FILOPOTAMIDI 2 PHILOPOTAMUS MONTANUS
FRIGANEIDI 3 PHRYGANEA GRANDIS

PLECOTTERI
Eterometaboli NEUMORIDI 4 NEMOURA CAMBRICA
PERLODIDI 5 HYDROPERLA CROSBY
PERLE GIGANTI 6 PTERONARCELLA BADIA

EFEMEROTTERI
Eterometaboli BETIDI 7 BAETIS RHODANI EFEMERIDI 8 EPHEMERA DANICA
EFFIMERE DEI RUSCELLI 9 ECDYONURUS DISPAR

Le imitazioni di queste Specie, nelle diverse fasi della loro metamorfosi, costituiscono patrimonio necessario, e quasi sempre anche sufficiente, per affrontare la maggior parte delle situazioni di pesca in montagna.

LE MOSCHE.

Da quanto sopra indicato, una buona dotazione di mosche artificiali può quindi essere costituita da ventuno esemplari:
 tre (larva, pupa, insetto alato) per ciascuna specie di Tricottero, pari ad un parziale di nove artificiali;
 due (ninfa ed imago) per ciascuna specie di Plecottero ed Efemerottero, pari ad un ulteriore parziale di dodici esemplari, per un totale complessivo di ventuno.

Personalmente ritengo che anche con quattordici o sette esemplari si possa affrontare in tutta tranquillità una battuta di pesca.

Credo, peraltro, molto importante avere la disponibilità di più pezzi dello stesso esemplare.
Capita frequentemente infatti, di perdere la mosca (magari proprio quella che sta catturando!) perché ci si impiglia nella vegetazione, tra i massi o per semplice rottura del terminale: è bene quindi poterla replicare disponendo di copie.

In genere si usano terminali φ = 0,14 o φ = 0,12 del tipo “fluorocarbon”: la prerogativa di essere poco visibili in acqua, e quindi adattissimi, ha però come contropartita una certa rigidità del monofilo che risente molto delle sollecitazioni a torsione, sfibrandosi.

Prima di sentire “schioccare” la coda durante il lancio, segno della perdita della mosca, è importante controllare ed eventualmente rinnovare il nodo, eliminando gli ultimi centimetri del terminale.

Nei negozi specializzati si possono trovare tutti gli artificiali di mosche desiderati, di buona qualità.
Io preferisco costruirmeli.
Gli amici del “Fly Club Padova” mi dicono, con molta cordialità, che le mie mosche sono rozze ed ingenue: però riconoscono, per avermi visto in pesca o per averle provate, che sono efficaci e catturanti.

Penso che una mosca debba essere costruita cogliendo l’essenza della larva, della pupa, della ninfa
o dell’insetto alato che si vuole imitare.

Una trota che vive in una buca, ai margini di un raschio o di una correntina, dietro un masso o sotto una cascatella, in un ambiente di competizione e di scarsità di cibo, non ha certo il “tempo” di “contare” se il possibile cibo ha tre, quattro o sette paia di zampe; se ha una o due coppie di ali; se il corpo ha due o tre regioni; se il torace è formato da due o tre segmenti; se l’addome ha undici segmenti…se i cerci sono due o tre e se hanno funzione difensiva o tattile…!

Il pescatore – costruttore delle proprie mosche deve cogliere l’essenza di ciò che sta imitando, rispettando: la taglia, le proporzioni d’insieme, la struttura, la silhouette ed i colori dell’insetto vero. Così facendo si costruiranno mosche semplici ed efficaci.

Di fondamentale importanza è la presentazione: una ninfa deve stare sul fondo, una emergente a mezza acqua o sotto il pelo dell’acqua, un insetto deve galleggiare, senza dragare, soprattutto se è morto (ad ali aperte).
In altre parole si può dire che l’aspetto vincente è di poter offrire al pesce un potenziale nutrimento riconoscibile, il cui apporto calorico sia superiore o almeno pari al dispendio energetico necessario per procurarselo.

LA CANNA.

Per questo tipo di pesca, in questi ambienti, sono da preferire canne ad azione semi – parabolica, perché danno un buon equilibrio tra rapidità e morbidezza nella ferrata.

In generale servono canne corte, da 6 a 7 piedi.
Per le situazioni particolari, non avendola trovata in commercio, mi sono fatto costruire una 5 piedi per coda n.2, esagonale in bamboo; è una canna di grande qualità che mi consente, nei piccoli rivi, lanci relativamente corti, ma precisissimi e che non teme catture, anche di buona taglia, sia pur ferrate in corrente.

Più spesso uso una 6 piedi per coda n.3, in carbonio, molto valida per tante situazioni di pesca.
Paradossalmente, in condizioni estreme, quando proprio non è possibile nessuna manovra, può essere utile una 10 piedi con la quale effettuare il cosiddetto lancio “a balestra”.

L’ideale sarebbe una canna telescopica – teleregolabile, anche per il ridotto ingombro e la facilità di smontaggio senza dover effettuare il recupero totale della coda.
Ho la fortuna di possederne una, ma presenta l’inconveniente di essere stata progettata in modo da prevedere, per ogni lunghezza possibile con la teleregolazione, una coda di diverso numero.

Non è proprio il caso di portarsi nello zaino tre mulinelli o tre bobine di ricambio: conviene accettare un compromesso e montare una coda intermedia. In ogni caso, va tenuto conto che la versatilità spesso non va d’accordo con la qualità.
 

IL MULINELLO.

Qualsiasi mulinello a bobina larga va bene, purché costi poco e sia leggero: purtroppo i due requisiti non sono sempre compatibili.
Potendo sopportare una certa spesa, indubbi vantaggi e comodità si possono avere con l’impiego di un mulinello semi – automatico. Il riavvolgimento della coda è molto rapido; inoltre, in caso di cattura, si può riavvolgere la coda “a terra” senza utilizzare la mano che non impugna la canna.

LA CODA DI TOPO.

Preferisco code color grigio sabbia, galleggianti e a doppio fuso.
Non serve la grande qualità della coda perché l’inevitabile continuo sfregamento su massi e ghiaie la rovina facilmente.

Se si ha la costanza di pulirla sistematicamente, dopo ogni uscita, e di applicare l’apposito silicone, prima di ogni uscita, dura molto più a lungo.

Personalmente, seguendo il consiglio di Witold Ziemacki (Come pescare meglio con la mosca artificiale, Editoriale Olimpia, 1986): taglio la coda a metà e ne carico sul mulinello soltanto mezza, più che sufficiente per i lanci che si possono fare. Si ottengono due vantaggi: il mulinello risulta più leggero, fatto non trascurabile nel bilancio delle forze, delle masse e delle accelerazioni in gioco nella dinamica del lancio, e si garantisce una migliore conservazione della metà non utilizzata custodendola in casa avvolta a larghe spire.

IL FINALE.

Libri e riviste forniscono molti consigli sul modo di scegliere un finale conico, ma anche molte “ricette” e “formule” per costruire quelli a nodi.

Io ho scelto di costruirmeli ed invito a farlo per la soddisfazione che se ne può ricavare.

Inizialmente si può sbagliare, ma, con pazienza e spirito di osservazione, nel tempo si impara a trovare il giusto equilibrio tra la parte di potenza ed il tratto conico, in modo da predisporre i nostri finali in forma soddisfacente per ogni situazione di pesca.

Se possibile, cerco di confezionare i miei finali in modo che risultino un po’ più corti della canna su cui vanno impiegati.

Così facendo si può agganciare la mosca all’apposito anellino evitando che la calzetta di congiunzione coda - finale, o il connettore, rientrino nei passanti. In questo modo si ottiene anche una maggiore comodità negli spostamenti.

Per una 5 piedi, da impiegare in un piccolo rio infrascato, un finale, a titolo indicativo, può essere così strutturato:

Lunghezza cm 30 20 20 15 15 35 Tot. cm 135
Coda di topo < F I N A L E > Mosca
Diametro φ, mm 0,35 0,30 0,25 0,20 0,18 0,16 * * o 0,14


IL LANCIO.

Le difficili caratteristiche ambientali delle zone in cui ci troviamo a pescare, comportano necessariamente la capacità di effettuare lanci diritti, ricurvi, angolati, sotto vetta e lanci rullati.

A volte torna utile o addirittura indispensabile il lancio a balestra; altre volte… bisogna inventare.

La cosa più importante è imparare ed abituarsi a fare pochi, pochissimi falsi lanci (per non disturbare le trote e per ridurre la possibilità di impigliarsi) e di effettuare una posa morbida della mosca e della coda.
LE TECNICHE.

Le tecniche di pesca sono sostanzialmente tre, come già anticipato: a ninfa, a mosca sommersa o emergente ed a secca.
Altre tecniche sono patrimonio di ciascun pescatore come, ad esempio, il dragaggio voluto della mosca secca (ad imitare la fase di deposizione delle uova da parte di un insetto femmina) o il recupero della ninfa a piccoli strappi (ad imitare la risalita dal fondo) o l’imprimere piccole vibrazioni ad una emergente (ad imitare l’abbandono dell’esuvia).

In genere, anche con la ninfa, si pesca a vista, data la trasparenza dell’acqua.
Se si vede arrivare una piccola trota sotto misura, è cosa buona fare in modo che non abbocchi, a costo di creare un disturbo sul tratto d’acqua interessato.

Con l’acqua mossa ed in corrente (la ninfa e la sommersa non sono visibili) si pesca con la coda in “tensione”. Capita spesso di catturare piccole trote sotto misura.
La cosa migliore è usare sempre mosche montate su ami senza ardiglione, o con ardiglione schiacciato, e slamare il pesce lasciandolo, ove possibile, sempre e completamente immerso in acqua.
Con questi due accorgimenti la sopravvivenza delle trote rilasciate è molto elevata.

Sarebbe bene, inoltre, non cedere alla tentazione di fotografare le catture prima del rilascio. Se proprio non se ne può fare a meno, si possono fotografare anche se sono in acqua: è sufficiente l’accorgimento di applicare davanti all’obiettivo un filtro polarizzatore per ottenere risultati soddisfacenti.
Le persone affette da patologie respiratorie sanno bene che cosa significhi mancanza di ossigeno…
Certi filmati, in cui si vedono pescatori che per decine di secondi mostrano agli obiettivi della camera da presa le loro catture e che poi si preoccupano di “rianimare” i pesci, mi lasciano profondamente perplesso, sicuramente amareggiato.
Se non è proprio necessario, è cosa buona evitare anche di entrare in acqua. I nostri piedi possono distruggere uova e larve di insetti ma anche, specialmente al disgelo, uova di trota ed avannotti.

E’ importante ricordare che stiamo pescando in luoghi in cui l’ecosistema è spesso in fragile e delicato equilibrio ed è quindi opportuno limitare tutti gli elementi di disturbo.

LE STRATEGIE.

Le strategie di pesca non possono essere stabilite a priori. Esse sono determinate dalle caratteristiche dei luoghi, dal tipo di vegetazione, dalla pendenza delle scarpate, dalla particolarità delle sponde e dai possibili accessi all’acqua; per lo stesso luogo, le strategie dipendono dalla stagione, dalla eventuale presenza di neve, dalla qualità dell’acqua, dalla temperatura e dalla situazione meteo.

In generale preferisco la pesca a discendere in modo da far arrivare la mosca prima della coda; se non è possibile cerco di posare il finale ricurvo, in modo da ottenere lo stesso risultato.
Se troviamo una bella buca che può ospitare anche più esemplari, è utile aggredirla da valle, sempre con lancio ricurvo, ed iniziare la posa della mosca dal fine buca e successivamente pescare a metà e, da ultimo, in testa.

Non è raro il caso, se si è ben operato, di catturare più esemplari nella stessa buca.

La scelta della tecnica e della mosca vanno fatte osservando e ragionando: non bisogna aver fretta di cominciare a pescare.

Capire se vi è una schiusa in atto, osservare se il pesce bolla, se sta sul fondo o a mezza acqua; individuare gli insetti che volano in prossimità o quelli trasportati in superficie, significa avere il patrimonio di conoscenze utile per le scelte vincenti.

Resta sempre importantissima la necessità di non fare rumore, di non produrre vibrazioni, di non proiettare ombre e di rimanere il più possibile nascosti.

CONCLUSIONI.

La pesca a mosca è uno dei modi più stilisticamente raffinati e tecnicamente sofisticati per soddisfare la nostra passione di pesca. Ora possiamo solo aspettare l’apertura, ma aspettando possiamo fare tante cose:
 pulire le canne, ripassare con vernice appropriata le legature e dare un po’ di cera vergine alle impugnature in sughero;
 pulire i mulinelli e lubrificarli;
 svolgere, pulire e siliconare le code di topo;
 costruire le mosche nelle quali riponiamo la nostra fiducia ed integrare quelle perdute;
 predisporre finali di diversa misura, potenza e conicità tenendo presenti gli inconvenienti riscontrati nella precedente stagione….

Ma possiamo anche sognare ad occhi aperti e rivedere e sentire:
le sfumature del verde di faggi, abeti e larici;
il bianco, il rosso il viola e l’azzurro dei fiori di ripa;
le tinte ed il profumo dei funghi;
il sapore di qualche fragola, mirtillo o lampone;
il verso e il canto di mammiferi ed uccelli,
i suoni dell’acqua in corrente, nel mulinello o in cascata.

Possiamo ricordare quante volte, sentendo un tuono, ci siamo preoccupati senza riuscire a capire le condizioni del tempo per poter vedere soltanto fazzoletti di cielo tra i pini…
Possiamo inventare una schiusa, immaginare la bollata di una trota e catturarla con una mosca da noi costruita e poi scelta, legata ad un finale pensato e realizzato da noi…che cosa c’è di più ?

Lord Grey of Fallodon (Fly fishing, nella traduzione di L. de Boisset, Pêche a la mouche, Librairie des Champs-élysées,1947) scriveva :

“Il serait délicieux d’écrire sur ses plaisirs si l’on pouvait par ce moyen les faire partager aux autres”. “Malheureusement, rien n’est plus difficile…”

Se Lord Grey aveva la preoccupazione di non riuscire a fare partecipi i lettori delle sue emozioni, figuriamoci che cosa posso sperare io!
Ma ho voluto provarci lo stesso.

Domenico Feriani, Padova, dicembre 2009.

sabato 2 gennaio 2010

Polpettine di trota fario selvatica.

 Nella raccolta “Soltanto per ricordare"
dal libro: A pesca di trote selvatiche (2010)
di Domenico Feriani.

La trota fario selvatica...o andate a pescarla, o trovate un amico che la sa pescare e ve la regala, oppure...rinunciate alle polpettine!
Preparo le polpettine secondo una ricetta che mi ha descritto un pescatore trentino incontrato durante una battuta di pesca.
  • Dopo aver pulito le trote, si lessano in acqua e sale con l'aggiunta di aromi; consiglio qualche bacca di ginepro ed alcune foglioline di timo;
  • cucinato il pesce, lo si pulisce perfettamente togliendo la testa, la pelle, la lisca e le spine più grosse;
  • si sminuzza la polpa di trota in pezzetti molto piccoli togliendo, con l'ausilio di una pinzetta, tutte le altre piccole spine;
  • a parte si lessano delle patate da gnocchi e si passano poi al passaverdura, in quantità più o meno pari alla polpa di trota;
  • si unisce la trota alle patate, impastando bene e legando il tutto con un uovo;
  • a questo punto si possono aggiungere gli aromi preferiti: formaggio grattugiato, oppure buccia di limone finemente tritata, oppure noce moscata od altro ancora, secondo la fantasia ed i gusti personali;
  • l'impasto si può suddividere in più parti e poter così diversificare i sapori aggiuntivi;
  • si confezionano quindi le polpettine, eventualmente di misura o forma diversa per distinguere i diversi sapori;
  • si passano le polpettine sul pan grattato e si friggono in olio extravergine di oliva.

Servire a caldo con un buon calice di rosatello: è un antipasto di sicuro successo.

Domenico, 3 gennaio 2010.