Nella mia famiglia si parlava anche di caccia.
Abitavamo a Camisano vicentino dove mio padre esercitava la professione di medico condotto.
La casa in cui sono nato non c’è più: modesta ma grande, e con un giardino molto bello, era in via XX Settembre, davanti alla trattoria “Alla Concordia” ed al forno di Ferruccio Ferracina, tra il ponte della “Puina” ed il monumento ai Caduti.
Mio fratello maggiore Luigi (Nino) dedicava il suo tempo libero agli Esploratori ed ai Lupetti del Riparto Camisano I; Riccardo (1930 - 2009) aveva propensione per la politica, se la cavava egregiamente nel complicato gioco delle carte chiamato “foracio”, ma la sua vera passione era la caccia.
Il papà faceva soprattutto e soltanto il medico.
I suoi svaghi erano: qualche caffè alla “Meridiana”, la partecipazione ad alcune cene “de osei”, quando lo invitavano, ed una settimana all’anno in Cadore, dove aveva fatto la guerra come ufficiale degli Alpini e dove aveva anche, a guerra finita, iniziato la sua professione di medico, nel paese di Castellavazzo.
Quando il “passo” era buono, capitava che ci regalassero degli uccelli: le mie sorelle allora li spiumavano e la mamma li cucinava, alla vicentina con lardo e salvia, sulla cucina economica.
Il papà era decisamente un buongustaio, una buona forchetta, come si diceva, e sosteneva che il segreto per mangiare “poenta e osei” con poco danno per la salute era quello di innaffiarli con poco vino e tanta acqua.
Per il papà erano una tradizione:
La cena in canonica, dove l’Abate Parroco Mons. Giuseppe Girardi, gran cacciatore e pescatore, invitava autorità ed amici;
La cena in casa di Alessio Vicentini (Mino), in data Madonna del Rosario, quando la Signora Gina preparava delle cene “de osei” degne di essere ricordate,
e un’altra cena, in novembre, non ricordo presso quale famiglia, forse Zambotto, per mangiare le cesene (gasanee).
Io, sesto figlio e terzo bocia (bocia, secondo il frasario degli Alpini), armeggiavo con archi e fionde ed andavo a pescare: inizialmente le alborelle, che chiamavamo “pesate” e poi i cavedani, che chiamavamo “squali”.
Solo di recente ho scoperto perché chiamavamo “squali” i cavedani; nella sistematica di Linnaeus (1758) il cavedano è classificato: Squalius cephalus!
All’inizio, mio fratello Riccardo andava a caccia, ospite di amici, in appostamento fisso (a capanno, che chiamavamo “casoto”), o in appostamento temporaneo, soprattutto per la caccia alle allodole, ma anche in capanni particolarmente attrezzati per l’uccellagione, ossia la cattura degli uccelli di passo con l’uso di reti a ribaltamento governate a mano; quest’ultima forma di caccia la chiamavano “oseanda”.
Qualche volta mi portava a capanno e, ogni tanto, mi facevano fare un tiro, “a rama”, con lo “sciopeto”: era il calibro 36.
Poi Riccardo ebbe un capanno tutto suo: ricordo che i richiami vivi li teneva sulla scala che, dal primo piano di casa, portava in soffitta.
Ricordo anche che mi recavo nella stalla di Francesco Zaccaria (Checo Z.) per raccogliere le tarme per gli uccelli da richiamo.
I richiami venivano trasportati, da casa al capanno, con la “gabionara”, un bel sistema a telaio di legno per tenere le gabbiette compatte e solide in modo da poterle trasportare appese al manubrio della bicicletta.
Io sono andato a caccia di nascosto, senza mai farmi scoprire, o almeno così credevo.
Con Francesco Zaccaria, quando il fratello Fausto era nei campi e la mamma (la Signora Jolanda) era fuori, forse anche a casa mia, a conversare con mia mamma, prendevamo un fucile di Fausto, di piccolo calibro, ed andavamo nel granaio della sua casa dove c’era di tutto, soprattutto frumento e grano turco.
Chiudevamo tutte le finestre, tranne due verso il vigneto e ci appostavamo ben nascosti dietro il mucchio delle patate.
Aspettavamo che entrassero i passeri e si trovassero in posizione tale da poterne prendere cinque o sei con un solo colpo.
Qualche volta faceva sparare anche a me, malvolentieri, perché aveva paura che non ne prendessi abbastanza.
Dopo la schioppettata sembrava che grandinasse frumento ma poi, con la scopa di saggina, mettevamo tutto in ordine.
Con Aldo Pavin, invece, uscivamo nei campi.
Verso sera perlustravamo le siepi, uno da una parte, l’altro dall’altra: alternativamente, uno armato di fionda, l’altro di un mauser che Aldo aveva opportunamente adattato per sparare a pallini e che io avevo barattato dando in cambio a Francesco Forestan (Checo F.), figlio di Piero detto “el Barba”, già Sindaco del Paese, un fucile mitragliatore trovato in soffitta nascosto sotto un mucchio di scatole vuote di medicinali.
In paese molti andavano a caccia; ho già ricordato L’Abate e Mino, ma mi vengono in mente altri.
Piero Speggiorin, detto “Piero Campanaro”, il più gran cacciatore-uccellatore mai conosciuto;
i Fratelli Busatta, in particolare Bortolo, (che abitavano lungo la strada che porta al Mancamento);
il pittoresco Signor Ghiotto, che partiva da casa a piedi trainando un carretto pieno di gabbie per recarsi al capanno nei campi di Casonato;
Mario Sacchiero, figlio dell’altro medico condotto con propensione a fare il dentista;
i fratelli Paliotto, Vittorino e Mario, detti “Perana”;
Carlo Tresso, che abitava in Cà Alta, uno dei pochi che prendevano beccacce, perché andava a caccia anche sull’altopiano di Asiago; ricordo il canto delle quaglie proveniente dai campi proprio dietro casa dove Carlo “impiantava la “quaiara”;
un certo Langeli, che procurava ai cacciatori i richiami vivi,
e tanti altri di cui non ricordo i nomi.
In campagna, praticamente ogni agricoltore e contadino aveva una “sciopa”: sciopa è l’espressione dialettale, al femminile, di schioppo, e stava ad indicare la classica doppietta calibro 12.
La caccia mi piaceva, ma non potevo praticarla autonomamente.
Ricordo con emozione le giornate passate nel capanno di Silvio Casarotto (Silvieto).
Per qualche anno, prima che se ne andasse negli Stati Uniti per un grande amore, diceva lui ma, secondo me, soprattutto per non fare il servizio militare, ho frequentato il suo capanno, costruito nei campi di famiglia, poco distante dalla sua bella casa colonica.
A metà mattina arrivava al capanno, in bicicletta, la sorellina di Silvio, Maria Grazia, che ci portava la merenda in un cestino di vimini coperto da una tovaglietta rossa.
Con il panino di salame c’era sempre la bottiglia con la spremuta d’uva ed i bicchieri di vetro.
Quando Maria Grazia veniva in paese, l’unico “abilitato”, dal gelosissimo Silvio, ad accompagnarla a casa era Sandro Miotti, perché di lui si fidava.
Silvio era un po’ snob, ma gentile e molto educato ed ogni tanto parlava in italiano. In paese era l’unico che, per indicare i prati sommersi ad arte per la caccia alle anitre, li chiamava specchi artificiali, mentre tutti gli altri dicevano “sguaso”.
Da Silvio ho imparato ad azionare gli zimbelli (sambei), ad usare i fischietti (ciocoi) di richiamo, a riconoscere le specie e a distinguerle dal verso e dal canto ed i nomi, anche dialettali , di quelli di passo.
Con la morte del papà, il trasferimento della famiglia a Padova, il faticoso percorso alla scuola di Ingegneria dell’Università di Padova prima e l’impegnativo lavoro poi, finì tutto: addio caccia e pesca.
Qualche uscita a pesca ogni tanto ma a caccia non ci sono più andato.
L’unico legame con la caccia è stato attraverso mio fratello Riccardo, che la ha praticata fino a quando la buona salute non è venuta meno.
Con l’amico Claudio Speggiorin, degno figlio di Piero, mio fratello ha fatto dei bei carnieri, specialmente in Friuli.
Ogni anno ero ospite di Riccardo, con parenti ed amici, per una cena di uccelli.
Secondo tradizione vicentina, la cena iniziava con un primo detto “pollo intingolo”, poi la “tecia de osei con la poenta frita”, verdure fresche e vinello speciale (imbottigliato da Claudio) a volontà: il tutto magistralmente preparato dalla moglie Rita.
Poi la tradizione si interruppe.
Mia moglie Luisa, allora, per non farmi mancare la cena di uccelli, li acquistava, prenotandoli per tempo, da un macellaio di “Sotto il Salone” e me li preparava per festeggiare il mio compleanno in dicembre.
Da qualche anno non li compera più perché riesco a prenderli: infatti, dal 2006, conseguita la licenza, vado a caccia, sia alla migratoria, sia alla selvaggina stanziale. Non sono esperto come a pesca, ma ho buoni maestri e sto imparando velocemente, anche perché non ho molto tempo…
Da qualche anno ho un altro appuntamento annuale per un pranzo di caccia: a casa di Adriana e Giancarlo.
Adriana è una “coscritta” e compagna di classe di mia moglie; per tanti anni si sono tenute in contatto con le classiche telefonate di auguri: Natale , Pasqua e compleanni. Si sono incontrate a Camisano annualmente per la cena della Classe (1941).
Qualche anno fa, Adriana che è figlia di Mino e della Signora Gina (ultranovantenne) ha voluto invitarci ad un pranzo di caccia.
E’ cominciata così una bellissima nuova tradizione: tutti gli anni, in inverno, noi siamo da loro a Scaldaferro; poi, in estate, loro sono nostri ospiti per un pranzo di pesce a base di trote selvatiche e temoli pescati da me, con mosche rigorosamente da me costruite.
Giancarlo è cacciatore e si dedica soprattutto alla selvaggina stanziale
Sono da ricordare i suoi surgelatori, ricchi di fagiani, starne, lepri, allodole, trote, morette….solo per restare in tema di caccia e pesca.
Adriana è una vera padrona di casa, una gran cuoca, come si addice alla figlia della Signora Gina.
Memorabili i suoi pranzi: vellutata di zucca con crostini, minestrina con i fegatini, allodole con polenta fritta, verdure fresche e cotte, frutta caramellata, formaggi e dolci di qualità, per non parlare dei vini.
Con Giancarlo ho legato subito; ci accumunano l’amicizia tra le mogli, la passione per la caccia e, purtroppo, i problemi cardiaci: ma entrambi siamo fiduciosi o incoscienti…
….
A Camisano vicentino, paese in cui sono nato, pratico la caccia soprattutto alla selvaggina migratoria.
A Camisano vive Aldo Pavin, l’amico d’infanzia (ha un anno più di me) con il quale ho fatto le prime esperienze di pesca e caccia, di cui ho già scritto in altri “Ricordi”.
Aldo è unico e proprio per questo non sarà facile raccontarlo.
Mamma Elena e papà Ermenegildo (Gildo): lei mite, lui un po’ burbero, ma un burbero benefico.
La sua cagna, un bellissimo esemplare di Pointer, non a caso si chiamava “Mis”.
Quando Gildo veniva a casa mia, per sostituire la bombola di metano, spesso si fermava in cucina con la mamma e chiacchieravano a lungo; tanto burbero poi non doveva essere.
Arrivava con il suo motocarro nel nostro giardino e poi portava la bombola a destinazione con l’ausilio di un carrello.
Ricordo che una volta la mamma gli ha passato il ferro da stiro per riscaldargli la schiena perché soffriva di dolori; infatti a volte camminava con difficoltà.
Il fratello maggiore di Aldo, “Bepi”, che lavorava come odontotecnico (allora noi dicevamo “meccanico dentista”) presso l’ambulatorio del Dott. Sacchiero, è morto in età giovane; se si fosse ammalato qualche tempo dopo sarebbe stato possibile salvarlo perché ci sarebbe stato il farmaco specifico e la conoscenza delle giuste dosi per somministrarlo.
Il fratello Carlo ci ha lasciati qualche anno fa; anche Carlo lavorava nel settore auto:
persona buona e fragile.
Il fratello Antonio, intraprendente e creativo, aveva iniziato la sua carriera lavorativa come apprendista presso una officina di elettrauto.
In poco tempo ebbe una officina tutta sua, dove anche Aldo iniziò il suo percorso lavorativo.
Ho partecipato al funerale di Toni qualche mese fa: si è spento in officina lavorando.
La sorella Maria, apprezzata e stimata, trovò un buon impiego in una importante azienda di Silea (TV), dove lavorava anche mio cognato Giovanni, che ci ha lasciati, marito di mia sorella Maria Antonia (Tona).
La sorella più piccola, Lucia, è diventata una brava insegnante elementare.
In poco tempo, dopo un periodo di apprendistato, anche Aldo realizzò una officina tutta sua, al piano terra di un complesso immobiliare di proprietà, con altri negozi e due appartamenti.
Il mercato c’era ed Aldo seppe intuirne e prevederne gli sviluppi possibili.
La sua abilità manuale, il saper fare, l’intelligenza, la professionalità e, soprattutto, l’onestà gli consentirono di acquisire una clientela di riguardo.
E’ stato, ed è, un artigiano di quelli che riparano, sostituendo i pezzi solo quando è necessario.
Quando mi rivolgevo a lui per le automobili di casa, al momento di pagare mi diceva: “tot di materiale e tot di lavoro”; non ha mai usato l’espressione manodopera.
Da qualche anno è in pensione, ma non ci riesce del tutto perché tanti vogliono ancora lui.
Da quando sono in pensione anch’io, lo frequento di più perché con lui, bontà sua, vado a caccia.
Mi sono fatto un’idea; penso che per tutti gli interventi ed i lavoretti che fa, per gli amici e conoscenti, non guadagni gran che, forse ci rimette, quantomeno il tempo che sottrae alla caccia, alla pesca, all’orto e a quella che lui, con arguta ironia, chiama la sua “Azienda”.
Se Aldo avesse potuto studiare, a quei nostri tempi era un privilegio per pochi, sarebbe diventato un bravo tecnico.
L’Azienda è costituita da un grande container, un’ampia tettoia-ricovero, un’automobile fuori uso, un signor orto, un recinto molto spazioso per la cagnetta da caccia “Lella” (Epagneul breton) coperto da un pergolato di varie uve e contenente due casette-cuccia (estiva ed invernale), un pollaio (galline di varie razze, galli ed anatre), un recinto con fienile per le capre nane ed una striscia di terreno confinante ad ovest con l’argine del fiume Ceresone e ad est con la roggia Schiesara; una striscia di terra larga circa dieci metri e lunga quasi cinquecento.
La striscia di terra è orientata Nord – Sud ed è compresa tra il ponte sulla strada comunale (vicino al mulino a ruota d’acqua in Contrà Levà) ed il metanodotto che sovra-passa il Ceresone.
Quella striscia era un incolto; ora è un giardino con fiori, frutta ed ogni genere di ortaggi.
Aldo ha bonificato le siepi di alberi (salici, robinie, sambuco, gelso, bamboo, ciliegio..) ed arbusti in modo da renderle attrattive per gli uccelli ed ha provveduto a piantare, alla base dell’argine del Ceresone, ogni specie di pianta per attirare merli, tordi , cesene, fringuelli, peppole…
Si trovano: crategus (bacche rosse e gialle), giuggiole, nespole, mandorle, nocciole, cachi, melograno, i piccoli cachi delle dimensioni di una ciliegia, sorbo del cacciatore, fichi, mele e tanti altri arbusti o alberelli che producono piccole bacche a grappolo.
Ha sistemato la stradina sotto l’argine applicando un sottofondo in modo che sia percorribile in automobile anche nei periodi di grande pioggia.
Il cancello d’ingresso è un capolavoro di ingegneria: tutto meccanico, tutto manuale.
Arrivando, basta un tocco con il muso della macchina, ed il cancello si apre.
Se il tocco è medio, il cancello si aggancia e resta aperto; se il tocco è morbido, il cancello si apre consentendo un veloce passaggio, non si aggancia e si richiude da sé.
All’uscita, un colpetto ad una leva raggiungibile dal finestrino aperto della macchina, fa chiudere il cancello lasciando il tempo per varcarlo.
Poi vi sono i ponti: tre ponti levatoi permettono di attraversare la roggia e di raggiungere comodamente e velocemente la grande distesa di campi ad est della Schiesara.
Fino a circa metà ottobre, il grano turco (in passato la soia) costituisce rifugio e zona di pastura per merli, tordi e qualche fagiano; poi, dopo il taglio del grano, la distesa aperta, allineata con una rotta migratoria, consente la caccia alle allodole di passo e di altre specie consentite in deroga.
L’acqua del Ceresone e della Schiesara sono attrazione e rifugio per anatre e gallinelle d’acqua.
All’altezza del pollaio e verso il recinto delle capre, Aldo ha realizzato due efficacissimi capanni per insidiare i tordi , merli e cesene.
Aldo ha una grande manualità; si costruisce tutto da solo trovando, per ogni problema, soluzioni semplici ed originali.
Detesta lo spreco e per questo recupera ed accantona tutto quello che può servire e lo reimpiega all’occorrenza.
Aldo è buono e generoso, direi altruista.
E’ benvoluto da tutti, evita sempre lo scontro e, se qualche cosa non funziona, si salva sempre con il suo umorismo, l’ironia e la battuta che sdrammatizza.
Fa fatica ad infliggere anche qualche piccola punizione al cane, perfino quando gli ammazza un pollo: in questi casi redarguisce la Lella chiamandola “selvaggia”; se si allontana troppo o tarda a rientrare la apostrofa chiamandola “zingara”.
Quando la libera le dice: “vai…vai…corri come il vento”.
Ultimamente Aldo si concede una vacanza di una settimana per andare a caccia nel sud Italia con un amico.
Durante la sua assenza svolgo qualche piccolo compito in “Azienda”, come, per esempio, dar da mangiare agli animali: per quel periodo ho la nomina di “Direttore”!
E’ difficile che io torni a casa, quando vado da Aldo, senza un regalo: una forbice, una cartucciera, una canna da pesca, un paio di guanti…., frutta, verdura ed anche funghi.
Si, perché in Azienda si possono trovare dei bei chiodini ed un fungo particolare, controllato dal micologo Lino Vicentini, che Aldo mi ha fatto conoscere e che è molto buono, specialmente con le tagliatelle: si chiama Agarico chiomato.
Aldo mi ha accolto come un fratello ed io non troverò mai il modo di ringraziarlo in maniera adeguata per l’opportunità che mi sta offrendo di frequentare “l’Azienda”, senza limiti e condizioni.
Non so se leggerà questo mio “Ricordo”, ma, in ogni caso, voglio qui ringraziarlo di cuore, sicuro che lui stesso non si rende conto del bene che mi sta facendo”.