martedì 22 dicembre 2009

Pesca della trota selvatica con le tecniche denominate "al tocco" e "a saltello".

Pesca della trota selvatica con le tecniche denominate “al tocco” e “a saltello”.

Con l’espressione “pesca al tocco” e “pesca a saltello” intendo la pesca effettuata senza l’uso di galleggiante e con l’impiego di esche naturali.

Il “tocco” è l’effetto dell’abboccata della trota, quando il pesce prende in bocca l’esca;
un tocco iniziale che si trasmette, attraverso la lenza, alla punta della canna e viene percepito dal sistema braccio-mano del pescatore.
Al primo tocco ne seguono altri che fanno capire al pescatore come la trota sta mangiando e con quale strategia di comportamento.

Il “saltello” è l’azione svolta dal pescatore, che fa saltellare l’esca sulla superficie dell’acqua, imitando il comportamento di un insetto terrestre incidentalmente caduto in acqua o di un insetto acquatico che sta per abbandonare la superficie dell’acqua o che vi è ricaduto dopo un periodo, in genere breve, di vita aerea.

Le esche naturali che prendo in considerazione sono il lombrico e la camola del miele per la pesca “al tocco”, la cavalletta per la pesca “a saltello”; si consideri, peraltro, che anche altre esche naturali possono essere proficuamente impiegate.

In relazione alla profondità che si vuol far raggiungere all’esca, si può appesantire il finale usando piccole palline di piombo di peso appropriato (pochi grammi o addirittura frazioni di grammo).

E’ molto importante applicare, tra la lenza madre ed il finale di lenza, una girella di buona qualità.
Infatti, la tecnica di pesca che intendo suggerire, pescando con il lombrico o con le camole, comporta anche una rotazione dell’amo innescato (e quindi del monofilo) ed una conseguente sollecitazione a torsione del finale che può perdere, anche in breve tempo, alcune delle sue caratteristiche meccaniche.
Si verifica, in generale, un degrado delle prestazioni, quali la riduzione del carico di rottura a trazione e la riduzione della resistenza al taglio in corrispondenza dei nodi.

L’uso della girella (anche del tipo doppio, nel caso di acque veloci) riduce di molto gli effetti negativi indicati sopra.

Sconsiglio l’uso di girella con moschettone perché più facilmente può raccogliere foglioline, rametti o alghe e, soprattutto, perché si impiglia più facilmente tra i sassi o tra la vegetazione sommersa.

Usando, invece, per esca la cavalletta, come meglio vedremo parlando della specifica tecnica di pesca “a saltello”, in generale non serve la girella e, tanto meno, il piombo, perché si pesca, come detto, sulla superficie dell’acqua.

I luoghi di pesca che io frequento sono naturalmente quelli che possono ospitare trote selvatiche: sono acque nelle quali, di norma, non vengono effettuati ripopolamenti, ovvero acque nelle quali vengono effettuate semine controllate di novellame selezionato e dello stesso ceppo di quello autoctono.

Si tratta di piccoli rii di alta montagna, torrenti di media montagna, ma anche di ruscelli a quote ridotte di altitudine o di risorgive del piano.

Queste ultime, di solito, sono situate in zone poco frequentate perché non conosciute dalla maggior parte dei pescatori, ovvero, ancorché conosciute, perché scomode da raggiungere in quanto lontane da possibili posti di parcheggio o di difficile praticabilità per essere molto infrascate.

Per questo tipo di pesca, la maggiore difficoltà sta nel conoscere i posti!
Se qualcuno non vi accompagna o, quantomeno, non ve li indica, dovete fare tutto da soli, investendo molte uscite allo scopo di ricercarli.

Io mi sono trovato nella situazione peggiore, ma, con impegno, pazienza, studio delle carte topografiche e, bisogna dirlo, con un po’ di fortuna, in qualche anno ho raggiunto lo scopo.

Trovato il corso d’acqua bisogna verificare se è popolato.
Qualche volta si riesce a vedere le trote in caccia nelle buche; altre volte si vedono bollare.

Quando a vista non si scorge niente, ricorro ad un piccolo accorgimento.
Porto con me sempre un contenitore adatto, di mia costruzione; quello che uso me lo sono costruito nel lontano 1952, da ragazzo.
Catturo qualche cavalletta, bruco o qualsiasi altro insetto in loco e li faccio cadere in acqua: se la trota c’è, se non si è fatto rumore e se siamo rimasti ben nascosti, prima o dopo si vede la bollata.

Nella ricerca dei luoghi, dalla mia ho avuto la condivisione e partecipazione di mia moglie che, pur non esercitando la pesca, mi accompagna e cammina volentieri divertendosi.
Con lei, armati di zaino, bastone, cordini, carta topografica e bussola abbiamo fatte tante escursioni per boschi, vallette e campagne, fuori dai noti itinerari escursionistici ed il nostro cercare ha dato buoni frutti.

Ora ho un patrimonio di conoscenza (che custodisco gelosamente) di alcuni piccoli corsi d’acqua, tra 1.000 e 1.600 metri di altitudine, parte in Trentino, parte in Veneto, lungo i quali, in cinque anni di attività alieutica, ho incontrato soltanto quattro pescatori complessivamente.
Analogamente abbiamo esplorato le campagne di pianura nella parte nord della provincia di Padova, individuando alcune buone acque da trota selvatica.

Per poter pescare in Trentino, senza dover ricorrere allo scomodissimo “permesso d’ospite”, ho dovuto, obbligatoriamente, partecipare ad un corso di formazione di un giorno, fare e superare un test di verifica di apprendimento, richiedere alla Provincia il “Certificato di abilitazione alla pesca”, ed, infine, ottenere la “Tessera di pesca” iscrivendomi ad una Associazione di pescatori scegliendo quella che ha in concessione i corsi d’acqua di mio interesse.

La pesca al tocco e a saltello sono abbastanza impegnative per più ragioni:

 Capita spesso, dopo aver parcheggiato, di dover camminare, anche per più di un’ora per raggiungere il luogo di pesca,

 A volte, per poter passare da una buchetta alla successiva, può essere necessario perdere anche venti minuti per risalire le strette vallette e ridiscendere: questo avviene ogniqualvolta una cascata, anche piccola, chiude completamente la valle,

 Una agevolazione nel seguire il rio si ha usando gli stivaloni; ma se l’avvicinamento al luogo di pesca comporta la camminata di un’ora è veramente disagevole farla con gli stivaloni indossati o portandoli nello zaino,

 Spesso e volentieri cambia il tempo, specialmente in montagna: bisogna quindi essere attrezzati come un alpinista,

 Alcune buche sono raggiungibili soltanto con l’ausilio di un cordino; bisogna quindi attrezzare il percorso in modo da poter risalire senza correre rischi,

 Nei primi mesi, dopo l’apertura, può fare veramente freddo, specialmente se vi è ancora un po’ di neve: bisogna quindi essere attrezzati ed allenati.
Tutti questi disagi sono ampiamente ricompensati dalla qualità delle trote, tutte e soltanto fario. (cfr. Nota 1).

In genere si tratta di trotelle di piccola taglia, tra i venti ed i trenta centimetri di lunghezza, ma di una bellezza unica per struttura e colori.
La tipica punteggiatura può essere rosso fuoco o arancio carico; il ventre di solito è dorato, mentre la schiena ha delle striature sul verde scuro.

Ogni tanto, in montagna, capita di prendere un salmerino, ma è un evento raro; più frequentemente capita, in pianura, di catturare qualche interessante esemplare di ibrido fario - mormorata.

Le trote sono molto aggressive, data la scarsità di cibo, ma, al contempo, timide e sospettose. Vibrazioni, rumori ed ombre proiettate sull’acqua le fanno fuggire in tana dove possono rimanere anche per ore.

La trasparenza dell’acqua, in alcuni casi, consente di vederle…. ma anche di essere visti.

Altri motivi di gratificazione derivano dal silenzio, dalla mancanza di tracce umane (qui non si trovano le scatole verdi o arancio in cui sono contenuti lombrichi e camole del miele abbandonate, non da pescatori veri, ma da “gente che va a pescare”!), dalla bellezza ed integrità del paesaggio e da possibili incontri con lepri, caprioli, camosci, urogalli e fagiani di monte….

Non meno bella è la campagna, per chi la sa capire: siepi, fossi, campi di grano, di mais, soia…. vigneti e frutteti….voli di anitre…

In montagna, mi è capitato, al disgelo, di ammirare una volpe che stava catturando le trotelle inesperte morte durante l’inverno perché imprigionate dal ghiaccio.

Un aspetto molto importante, come detto, è quello di non farsi sentire, di non farsi vedere e di non proiettare ombre anomale sulla superficie dell’acqua.

L’ombra di un ramo, anche mosso dal vento, non disturba la trota; quell’ombra la trota la conosce da qualche anno, da quando vive in quella buca dove l’ombra si proietta.

L’ombra di una persona o semplicemente della canna la fa fuggire… se non ci credete, provate!
Bisogna fare attenzione nel muovesi camminando.
Un passo pesante, specialmente su terreno duro, trasmette all’acqua, attraverso il suolo, delle vibrazioni che la trota, attraverso la linea laterale, percepisce ed interpreta come pericolo.

Altro fatto molto importante è quello di far arrivare l’esca, nella zona di caccia della trota, nel modo più naturale, come cioè se fosse trasportata dall’acqua secondo il percorso che la corrente le farebbe naturalmente fare.

E’ molto improbabile che un lombrico cada dal cielo nel bel mezzo di una buca; è più verosimile che scenda, portato dalla corrente, spostandosi ad una certa profondità iniziale e poi continui a scendere radendo il fondo e possa magari, successivamente, rialzarsi per effetto di una correntina o di un giro d’acqua, per poi ridiscendere…e così via…
E’ verosimile, invece, che in acqua si posi un insetto acquatico o cada un insetto terrestre

Rispetto alla montagna, in pianura le difficoltà ambientali sono di molto ridotte.

Di solito però vi è una maggiore portata, larghezza e profondità del corso d’acqua, sempre di ridotte proporzioni rispetto al grande fiume del piano.

E’ più difficile, quindi, individuare i punti di transito e di stazionamento del pesce, salvo quando non stia bollando per effetto di una schiusa di larve di insetti acquatici in atto o per effetto della caduta di insetti dalla vegetazione riparia. (cfr. Nota 2).

Per poter offrire l’esca secondo la logica sopra descritta, preferisco pescare a discendere e non a risalire come normalmente fa la maggior parte dei pescatori.
Ciò mi consente di meglio manovrare la canna in modo da far arrivare l’esca al pesce senza lanciarla, ma facendola trasportare dalla corrente.

Si può obiettare che in questo modo è più facile essere visti: Io credo che si possa imparare a muoversi senza che ciò accada.
Inoltre, mi organizzo in modo da “pescare” il più lontano possibile dal punto in cui appoggio i piedi.
Ed ancora, pescando a scendere, si evita di far passare il filo sul muso o sulla schiena del pesce!

Nella pesca al tocco uso un finale di buona qualità, trasparente e sottile, senza esagerare. Faccio in modo che la resistenza, o carico di rottura, del finale sia leggermente inferiore a quella della lenza base, o corpo di lenza. In questo modo, quando ci si impiglia, si perde soltanto il finale.

Tratti finali del diametro dello 0,14, 0,16 o anche, in alcune occasioni, dello 0,18 vanno bene; più sottili non aiutano, più grossi sono inutili.

Non vi sono particolari esigenze per la canna, che deve essere soprattutto leggera per non affaticare, di ingombro ridotto, da chiusa, per facilitarne il trasporto negli spostamenti e di lunghezza appropriata in ragione del corso d’acqua in cui si sceglie di pescare.

Rinunciando alla mia preferenza, in generale, per le canne a sezioni staccate, per questo tipo di pesca privilegio le canne telescopiche per ragioni di comodità nel trasporto e nello smontaggio che può essere necessario anche molte volte, durante la battuta di pesca, per liberare le mani quando è in gioco la propria sicurezza.

E’ consigliabile l’uso di uno zaino appropriato, idoneo a riporvi la canna. Ve ne sono di ottimi in commercio muniti di portacanna predisposto allo scopo.

Personalmente ho risolto il problema della canna facendomi personalizzare una telescopica teleregolabile che mi consente praticamente qualsiasi misura compresa tra due metri e mezzo e quattro metri e venti centimetri; ad essa applico un piccolo mulinello a bobina fissa del tipo carenato che mi evita grovigli e “parrucche” del monofilo: il mulinello non ha una funzione molto importante e rappresenta, essenzialmente, una riserva di filo.

Questi tipi di mulinello, almeno quelli che conosco, non sono di gran qualità, ma servono allo scopo.
In pianura uso, invece, canna e mulinello più robusti e di maggior pregio perché è più facile imbattersi in una fario (o ibrido) di buona taglia, anche superiore al chilogrammo di peso: quando prevedo questa possibilità porto nello zaino un piccolo guadino.

Gli ami: dopo tante esperienze, prove e sperimentazioni ho scelto di usare ami del numero 8; di colore rosso se pesco con il lombrico, chiari se innesco le camole del miele, color bronzo se impiego le cavallette.

Preferisco quelli leggermente renversé perché più efficaci nella ferrata.

Pescando con la cavalletta uso ami diritti a gambo corto perchè così spariscono completamente nell’addome dell’insetto rispettandone la conformazione.

Il corpo di lenza deve essere adeguato al finale. Le migliori combinazioni sono, rispettivamente: φ 0,20 con φ 0,18; φ 0,18 con φ 0,16; φ 0,16 con φ 0,14.

Faccio i nodi con molta cura e spesso li ricopro di vernice protettiva.
Gli ami li lego con un nodo in modo che l’eccedenza del filo reciso rimanga verso l’alto.
In questo modo è facilitato il posizionamento dell’esca fin sopra il nodo e si ottiene anche un piccolo sostegno dell’esca stessa, che meno facilmente scivola verso la curvatura dell’amo scoprendo il nodo.

Per la piombatura, quando è indispensabile, uso palline di diverso peso, dimensione e colore in ragione della corrente, del fondale, del colore dell’acqua e del contesto generale.

Stabilito il peso, l’ideale sarebbe frazionarlo usando più palline spaccate di diametro, e quindi di peso, decrescente in modo da distribuirlo lungo la lenza.
Ciò però comporta maggiori probabilità di impigliarsi tra le erbe o tra i sassi, pertanto cerco dei compromessi, frazionando, ma non troppo.

Se possibile non uso piombo. La girella mi consente, nella maggior parte dei casi, il necessario affondamento ed anche il peso sufficiente per qualche piccolo, raro, lancio che si può rendere necessario.

Dall’apertura, o meglio dal disgelo (cioè da quando il rio o torrente diventa, sia pur al limite, praticabile), con acque, quindi, leggermente tinte, preferisco usare il lombrico;
in primavera avanzata uso le camole del miele, mentre nei mesi di agosto e settembre uso la cavalletta.
La scelta, con qualche piccola differenza sui tempi, vale sia per la montagna, sia per la pianura.

Il lombrico va innescato in modo da coprire il nodo ed un pezzetto del finale. La punta dell’amo esce a non più di un centimetro dalla coda del verme, altrimenti può succedere che la trota si mangi la coda senza “abboccare”.

Analogamente con l’uso della camola. Ne innesco due: la prima copre un trattino di finale, il nodo ed il gambo dell’amo fino alla curvatura, la seconda non la lascio penzoloni, ma la punto trapassando prima la testa e poi la coda in modo da formare un anello. E’ un sistema molto efficace e catturante.

Pescando a scendere, come preferisco, è opportuno fermarsi alcuni metri a monte rispetto al punto in cui si vuole far pervenire l’esca, laddove si ritiene che vi sia la trota in attesa di cibo.

Analizzata la corrente, si posa l’esca in modo che, anche con opportune manovre della canna, essa possa raggiungere il punto prescelto.
In prossimità di detto punto, si imprimono all’esca delle piccole vibrazioni recuperando qualche centimetro e poi rilasciando.
Con recuperi più corti dei rilasci, l’esca si avvicina lentamente al punto giusto e con un movimento roto-traslatorio che ben imita la condizione di esca viva.

Se si oltrepassa il punto senza avvertire il tocco, si procede alla rovescia recuperando filo più di quanto se ne cede. E così per un paio di passate.

Se non succede niente, il più delle volte continuare ad insistere è tempo perso. Se siamo però convinti che ci sia la trota, conviene aspettare qualche minuto prima di riprovare.

Se mi è possibile, pesco molto a valle, anche cinque o sei metri: la distanza mi garantisce di non essere visto, di non proiettare ombre, di non trasmettere vibrazioni sospette e di far affondare l’esca alla profondità voluta.

Impugno la canna con la mano destra passando il piede del mulinello tra il dito medio e l’anulare; con l’indice trattengo il filo per la ferrata; la frizione è morbida per sfilare lenza facilmente con la mano sinistra, per far scendere l’esca con la stessa, o quasi, velocità della corrente.

In ogni caso, nella mano sinistra, tengo una riserva di filo pari a trenta o quaranta centimetri, in modo da allentare la tensione, in caso di abboccata, al primo tocco percepito.

Dopo il tocco, sollevo delicatamente la punta della canna e metto il filo in leggerissima tensione controllando i tocchi successivi attraverso il filo trattenuto con la mano sinistra, tra pollice ed indice.
In ragione di come la trota sta mangiando, la ferrata può avvenire entro un tempo variabile tra quattro ed otto secondi.
Se il filo se ne va deciso verso il sottoriva o verso un masso, ferrare immediatamente: la trota ha l’esca in bocca ed ha deciso di alimentarsi in tana.

Dopo la ferrata, la trota va salpata rapidamente e subito uccisa con un annoccatore.
Ne ho costruito uno, corto, di sambuco, che è leggero, sfruttando un nodo adeguato presente sul tratto di ramo prescelto. Così facendo si evita che lo stress e la morte per asfissia compromettano il delicato sapore delle carni.
Avvolgo la cattura in uno straccetto bianco appena umido e la ripongo in un cestino di vimini a maglie larghe; il trasporto in macchina lo faccio usando la borsa termica.

La pesca con la cavalletta va fatta in superficie.
Si innesca senza trapassare il capo dell’insetto puntando l’amo sotto di esso, facendolo scivolare all’interno e facendolo uscire soltanto fino all’ardiglione.
Appena innescata, la cavalletta muove le zampette creando delle piccole onde circolari che diventano un richiamo quasi irresistibile per la trota.

Se l’insetto non ha vitalità propria, si fa artificialmente saltellare, senza estrarlo, sulla superficie dell’acqua in modo da creare i cerchietti d’onda..

Se la trota c’è e decide, parte da sotto o da un lato ed abbocca con decisione,… da predatore.
Si pesca a vista; bisogna attendere una frazione di secondo ed aspettare che la trota viri per affondare o rientrare in tana: in quel momento si ferra e si salpa.

La posizione ideale è pescare dall’alto sulla verticale.
Non potendo assumere tale posizione, si lascia scendere l’esca con la corrente facendo leggermente dragare l’insetto.

Per la ferrata, vale quanto appena detto, con l’avvertenza di anticipare leggermente i tempi se l’esca è a più di qualche metro di distanza per ovvie ragioni di messa in tensione del filo.
Attuate tutte le cautele, le catture non mancheranno.

Se avete trovato un torrente buono, non sfruttatelo eccessivamente: una fario di sei centimetri impiega due anni a raggiungere i venti!

Limitatevi a catturare qualche esemplare, giusto quanto serve per una cenetta prelibata, altrimenti, in qualche anno, il corso d’acqua si impoverisce e non vi divertirete più.
Le trotelle più piccole sono ottime fritte.
Si degustano volentieri anche cucinate ai ferri, guarnendole con foglioline di timo e bacche di ginepro colte sul posto; in pianura si può usare rosmarino e buccia di limone.
Quelle di media taglia possono essere lessate in acqua e sale aggiungendo qualche aroma secondo i gusti personali: si serve con un giro d’olio e maionese.
Le più grandi sono molto buone cucinate al forno sotto sale.

Questo pezzo è stato scritto nel mese di marzo 2009 ed è stato pubblicato nella "Rivista quadrimestrale di pesca natura ed ecologia": "Il pescatore trentino, anno 32, n. 3/2009, pag. 14 e seguenti".

Domenico, 22 dicembre 2009

Nota 1
Nome latino: Salmo trutta fario (Linnaeus 1758),
Famiglia: Salmonidae,
Ordine: Salmoniformes,
Nome inglese: Brown trout,
Morfologia: forma del corpo allungata e leggermente compressa lateralmente; testa robsta e bocca terminale grande munita di forti denti; colorazione molto variabile, dorso da bruno scuro in molti soggetti a quasi argenteo in altri, tipica tuttavia la presenza di piccole macchie nere, rosse e marrone o di altra sfumatura sui fianchi e sulla testa.
Taglia: 30-35 cm, sino ad un massimo di 50 cm in ambienti con una buona produttività.
Distribuzione: nelle acque correnti di molte regioni italiane. E’ difficile dire quali popolazioni siano indigene e quali derivino da immissioni di materiale d’allevamento.
Habitat: acque a corrente molto rapida, fresche, limpide e ben ossigenate con fondale roccioso, sassoso o ghiaioso.
Alimentazione: invertebrati acquatici e terrestri, altri pesci.
Riproduzione: depone nel tardo autunno o all’inizio dell’inverno un numero modesto (1.500-2.000 per Kg di femmina) di grosse uova (4-6 mm). La schiusa con una temperatura ambientale di 10 °C ha luogo in 41 giorni. La maturità sessuale è raggiunta in un periodo variabile da 3 a 5 anni.
Valore economico: molto elevato.
Origine del nome: il nome di fario deriva dal tedesco “forelle”.

Nota 2
In questi casi colgo l’occasione per pescare a mosca, con la coda di topo, usando una canna di 5 piedi, per coda del numero 2, che mi sono fatto costruire appositamente per pescare nei rii e nelle piccole risorgive del piano, di solito fortemente infiascati e poco praticabili.
Questa tecnica di pesca non rientra nel tema di questo articolo e meriterebbe una descrizione specifica, che spero di poter fare in un successivo articolo.

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